Ezio Manzini si occupa di design per innovazione sociale. Per più di due decenni ha lavorato nel campo del design per la sostenibilità. Recentemente, i suoi interessi si sono focalizzati sull’innovazione sociale, considerata come uno dei maggiori agenti del cambiamento. Su questo tema ha promosso e, attualmente, presiede, DESIS: una rete internazionale di scuole di design specificatamente attive nel campo del design per l’innovazione sociale verso al sostenibilità (http://www.desis-network.org ). Attualmente, Honorary Professor al Politecnico di Milano e Guest Professor alla Tongji University (Shanghai) e alla Jiangnan University (Wuxi). In parallelo al suo coinvolgimento nell’area del design per la sostenibilità, ha esplorato e promosso le potenzialità del design nell’ambito del Design dei materiali, negli anni ’80, del Design Strategico negli anni ’90 e del Design dei servizi, negli ultimi 10 anni. Il suo libro più recente è: “Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation”, MIT Press 2015.
Cos’è il design per l’innovazione sociale e in che modo si differenzia dal design tradizionale?
Il design per l’innovazione sociale è tutto ciò che il design, in tutte le sue forme, può fare per promuovere e sostenere il cambiamento sociale verso la sostenibilità. Per distinguerlo da quello che chiami “design tradizionale” (avendo in mente, credo, il design industriale del secolo scorso), occorre fare due mosse: la prima comporta il riconoscere che l’innovazione sociale è, di fatto, il risultato di attività progettuali più o meno diffuse ed esplicite. La seconda, che il design del XXI secolo è assai lontano da quello del secolo precedente e, in quest’evoluzione, ha perso il suo legame privilegiato con i prodotti fisici e con le industrie manifatturiere. Per farla breve, il design che è emerso in questi ultimi due decenni si propone come un insieme di competenze, una cultura ed un approccio applicabili praticamente ad ogni ambito problematico. E quindi anche – ma non solo – ai temi proposti dall’innovazione sociale.
Posso aggiungere che, mentre il primo passo è stato fatto da molti, ciò non è vero per il secondo. Infatti, oggi, in ogni ambito di attività, è facile trovare persone che riconoscono l’importanza di assumere un atteggiamento progettuale e magari sono anche interessate ad apprendere qualche strumento progettuale. Viceversa, è ancora raro, anche tra queste stesse persone, che si riconosca l’utilità di aver nel team di progetto un esperto specializzato in questo tipo di attività (cioè un designer formato per collaborare in processi di innovazione sociale). Però, anche su questo lato, le cose stanno evolvendo in modo positivo.
Come cambia il ruolo del designer all’interno del processo di design di innovazione sociale?
Per rispondere a questa domanda occorre tornare alla mia precedente risposta. Per riconoscere il cambiamento nel ruolo del designer occorre che si facciano i due passi di cui si è detto. Il primo comporta di considerare come il designer opera nel quadro del design del XXI. Il che significa, all’interno delle discipline del design che negli anni passati sono emerse. Queste discipline hanno nomi diversi (come: design dei servizi, design dell’interazione, design della comunicazione, design strategico). Ma hanno anche qualcosa in comune: ciò che si progetta non è un “risultato finale” (come quando si progetta una sedia o una lavatrice), ma sono le condizioni affinché un evento desiderato abbia maggiori possibilità di avvenire.
Più precisamente, poiché il “risultato finale” non è più una cosa, ma un sistema di relazioni, e poiché le relazioni, in quanto tali, per fortuna, non si possono progettare, quello che si può fare è di intervenire sul loro ambiente: progettare dei sistemi di prodotti, servizi e comunicazione che rendono una data maniera di essere e di fare più facile, più interessante e quindi più probabile. Questo è dunque il nuovo ruolo dei designer: collaborare alla creazione di ambienti sociomateriali più favorevoli. E farlo adottando un atteggiamento dialogico. Che significa: ascoltare, contribuire alla discussione con delle idee, ascoltare ancora e andare avanti in questa conversazione con i diretti interessati e tutti gli stakeholder coinvolti.
Una volta riconosciuto e acquisito questo modo di fare, applicarlo alle pratiche dell’innovazione sociale non dovrebbe presentare particolari difficoltà. Se non quella di decidere di operare su questitemi, dal lato del designer, e di essere riconosciuti come partner, da parte degli altri attori sociali coinvolti.
Potresti spiegarci questa evoluzione anche attraverso qualche esempio di successo?
Farò un esempio che mi sta molto a cuore non solo perché è un caso di successo, ma anche perché non è un singolo intervento progettuale ben riuscito, ma è un processo che è durato a lungo nel tempo (più di 10 anni se andiamo all’inizio della storia). Un processo di ricerca progettuale che ha già dato dei risultati tangibili e che è ancora in corso. Riguarda un programma per l’abitare collaborativo, sviluppato da DESIS Lab al Politecnico di Milano in collaborazione con una rete partner.
La prima fase del programma, iniziato nel 2006, si è concentrata sul cohousing, inteso come gruppo di persone e famiglie che decidono di vivere vicine, condividendo una serie di servizi e di spazi. Va detto che, nel 2006 quest’idea circolava in Europa e in tutto il mondo già da molti anni. Tuttavia, per vari motivi, il numero di cohousing realizzati era ancora esiguo. Sebbene in molti avessero espresso interesse per quest’idea, varie difficoltà avevano reso difficile metterla poi davvero in pratica, se non in alcuni casi eccezionali. A partire da questa osservazione, il DESIS Lab del Politecnico di Milano, in collaborazione con un’impresa sociale ha sviluppato una prima piattaforma per il cohousing finalizzata a renderlo più facilmente praticabile. A questa prima esperienza sono seguite diverse altre attività: è nata un’impresa dedicata (Cohousing.it) che, da allora, promuove iniziative di cohousing a Milano e sono state create altre piattaforme, moltiplicando il numero di iniziative analoghe nel paese. A loro volta, queste attività di cohousing sono diventate la base per altre iniziative, come per esempio delle tesi di dottorato e un master del Politecnico di Milano, che hanno approfondito il tema, allargandolo anche ad altri modelli abitativi. Infine, e questo è forse il risultato più importante, l’insieme di queste esperienze è stato recepito e ulteriormente sviluppato dalla Fondazione Housing Sociale (FHS): un’istituzione dedicata al supporto dell’edilizia sociale in Italia che oggi ha introdotto nei suoi programmi la nozione di abitare collaborativo, utilizzando e adattando alle proprie esigenze le idee e le esperienze di cui si è detto.
Molti progetti direttamente collegati alla soluzione di problemi contemporanei hanno fatto emergere problemi nelle infrastrutture normative inadeguate a servizi innovativi. Come deve essere affrontato questo problema?
Va affrontato mettendo in atto una grande capacità di sperimentazione. Il problema, infatti, è enorme: un intero sistema istituzionale e normativo, immaginato in relazione alla società del secolo scorso, sta andando in pezzi, ma ancora resiste con tutta la sua inerzia alla necessità di capire il cambiamento in atto e rinnovarsi. D’altro lato, non c’è speranza che le belle idee che gli inventori sociali sono capaci di generare possano durare nel tempo, e mantenere la loro qualità sociale se, ad un certo punto della loro traiettoria evolutiva, non incontrano delle istituzioni con cui sia possibile dialogare in modo costruttivo.
Va detto però che, anche in questo caso non si deve generalizzare e che, qualche volta, questo dialogo costruttivo si è realizzato e si realizza. Lo stesso esempio che ho portato prima è anche un caso di incontro costruttivo. Infatti, a un certo punto della storia, l’idea e la pratica totalmente bottom-up e autonoma dei cohousing si è – positivamente- istituzionalizzata in quella di housing sociale: un’iniziativa che richiede la partecipazione attiva dei diretti interessati, ma che è messa in atto da FHS: un’istituzione solida, ma che ha, in questo caso, saputo dialogare con idee nuove ed adeguate ai tempi. Altri simili esempi si potrebbero fare. Cosa avrebbero in comune? Il fatto che, per ragioni che possono anche essere assai diverse e contingenti, ad un certo punto sono stati creati degli ambienti in cui è stato possibile sperimentare regole e procedure innovative.
Nel nostro ultimo libro “sPOP” abbiamo individuato nello spopolamento uno dei fenomeni che maggiormente influenzeranno lo sviluppo economico, urbano e sociale della Sardegna. Esistono dei processi di design di innovazione sociale che possano essere considerati di riferimento per affrontare questo fenomeno?
Dovrei essere io a chiederlo a voi! Intendo dire che voi siete quelli che fanno innovazione sociale in Sardegna… io, nel caso, potrei aggiungere che, a partire dalla progettazione che state facendo, ci potrebbero essere dei designer che, in modi diversi, potrebbero essere di aiuto e supporto.
In ogni caso, rispetto al grande tema dello spopolamento delle aree interne, c’è una chiara concatenazione tra il loro ripopolamento nel quadro di una sana ecologia del territorio, la creazione di sistemi distribuiti su reti di attività locali connesse, e una pianificazione per progetti in cui il design potrebbe giocare un ruolo importante (a fianco, ovviamente, di diverse altre figure). Sul come ciò potrebbe avvenire, vi rimando alla prima risposta in quest’intervista, o se mi è concesso fare un po’ di pubblicità, al mio libro Design when Everybody Designs (MIT Press,2015) di cui, per altro, finalmente, è in preparazione l’edizione italiana.
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