Terzo appuntamento con la nostra inchiesta sul futuro del lavoro dell'architetto. In questo articolo le considerazioni di Giovanni Messina (ingegnere edile architetto e co-fondatore di M2Bstudio di Cagliari) e Antonello Naseddu (architetto che ultimi anni ha lavorato tra Italia, Cina, Arabia Saudita e Emirati Arabi).
GIOVANNI MESSINA

ANTONELLO NASEDDU
Confesso di avere avuto non poche difficoltà nello scrivere queste poche righe. Intervenendo in un dibattito sulla professione di architetto, infatti, non sapevo quanto la mia esperienza lavorativa -definibile più schizofrenica che vasta- potesse essere d’aiuto. Da quando ho conseguito la laurea, vuoi per necessità economiche, vuoi per la continua voglia di fare nuove esperienze, ho percorso molte strade diverse, ricominciando ogni volta daccapo. Sono passato da un master che sarebbe dovuto essere il preludio al Phd e poi alla ricerca, alla libera professione (attività svolta nel corso degli anni con una sempre crescente disillusione), alle esperienze di Hong Kong e poi Guangzhou, passando per una collaborazione presso un’Agenzia Regionale di Cagliari, prima di approdare in Medio oriente, prima a Riyadh, poi a Dubai, per poi fare ritorno nella capitale saudita. Il Direttore di uno studio inglese mi disse, tempo fa, che la mia esperienza non era spendibile, ché nel corso degli anni era come se avessi “scalfito” la superficie senza mai arrivare in profondità.
Sicuramente da un punto di vista pratico aveva ragione lui. Certo è che se mi avessero messo di fronte alla possibilità di fare “carriera” in una società cominciando come assistente architetto per finire dopo quindici anni come direttore o associato, avrei comunque scelto la mia poco remunerativa ma sicuramente più appassionante attività di scalfittura. Pensandoci bene sì, forse quello che posso portare in dote a questo scambio d’idee, è la mia piccola esperienza personale, che ha come filo conduttore la continua ricerca di nuovi stimoli in ambito lavorativo.
Se quella di Hong Kong fu una vera e propria avventura capitata quasi per caso e affrontata con incoscienza, dove ho imparato ad avere fiducia nei miei mezzi affrontando con leggerezza un mondo dove tutto era possibile, quella di Guangzhou è stata vissuta in modo diametralmente opposto. Il mio viaggio per la Cina profonda, infatti, cominciò come un salto nel buio, con una forte sensazione di amarezza per avere in qualche modo fallito nel mio intento di creare in Italia le condizioni per lavorare come avrei voluto. La neppure così vaga sensazione che l’Italia in generale e Cagliari in particolare (città che ho adorato sin dal primo momento) non mi volesse, non faceva che acuire questo senso di pesantezza. Non mi sentivo, in quel caso, tanto diverso da quegli emigranti che lasciavano l’Italia con la speranza di trovare condizioni migliori in un Paese lontano.
Fortunatamente, anche a quasi quarant’anni, se metti sul piatto della bilancia un po’ d’incertezze con un futuro fatto di nuove scoperte, prevale ancora il secondo. Con il senno di poi, posso dire che l’esperienza di Guangzhou rimane quella più intensa e ricca di soddisfazioni a livello personale e professionale.
L’esperienza saudita, più matura e “ragionata”, è stata invece quella dove ho scoperto un mondo che mi era sconosciuto fino ad allora: quello dei grandi appalti e delle complesse e pesanti macchine governative. Un’esperienza, come capita spesso, dai sapori contrastanti: gratificante eppure spesso terribilmente noiosa, limitante se si considera la situazione sociopolitica dell’ Arabia Saudita eppure così importante dal punto di vista umano. C’è stato dunque un grande susseguirsi di emozioni e sensazioni diverse in quello che ho vissuto fuori dall’Italia, difficilmente descrivibili in così poco spazio. Ecco, forse bisognerebbe mettere l’accento proprio sulla componente umana quando si raccontano le storie degli italiani all’estero, spesso scioccamente definiti “cervelli in fuga”.
Personalmente, nel corso di questi anni, di grandi cervelli all’estero ne ho conosciuti ben pochi. Ho conosciuto invece persone con sane ambizioni spesso difficili da inseguire nel nostro Paese, persone che se da una parte (e meno male) non si sentono superiori a chi è rimasto, dall’altra non sentono nemmeno il bisogno di chiedere scusa per questa loro scelta, come vorrebbe qualche grottesco personaggio politico secondo il quale chi lavora all’estero tradisce il proprio Paese. E’ per questo che –lo dico senza timore di essere considerato cinico o anti italiano– se un ragazzo neo laureato dovesse chiedermi un consiglio sul suo futuro lavorativo, gli suggerirei di lasciare l’Italia. Magari non per sempre, magari riportando indietro quanto prima un bagaglio di esperienze che sicuramente non dimenticherà mai.
Per quel che riguarda noi, che all’estero ci siamo già, mettiamoci in testa che non siamo noi a dovere sacrificare le nostre ambizioni in nome di un non ben definito “contributo alla crescita del Paese”. Devono essere piuttosto coloro che hanno in mano il potere decisionale a creare le condizioni perché l’Italia diventi o torni a diventare un Paese delle opportunità.
Noi, da lontano, stiamo aspettando quel momento.
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