Non è facile capire cosa si intenda esattamente per smart city anche perché, man mano che il concetto originario veniva esteso per rispondere alle critiche, l’espressione ha assunto un senso onnicomprensivo: si è passati da un significato che considerava “intelligente” una città.
Ad esempio per lo Smart Cities Council[1]:
“A smart city is one that has digital technology embedded across all city functions”, ma premette che siamo ancora nella fase: “I know it when I see it”.
È evidente che l’enfasi è sulle tecnologie; mentre la definizione di Caragliu, del Bo e Nijkamp[2] è:
“A city can be defined as ‘smart’ when investments in human and social capital and traditional (transport) and modern (ICT) communication infrastructure fuel sustainable economic development and a high quality of life, with a wise management of natural resources, through participatory action and engagement”,
che appare molto più estesa, quasi troppo.
Ecco perché non mi viene spontaneo usare questo termine (diciamo pure che non mi piace), che un po’ come sostenibilità, partecipazione, comunità assume un carattere vago e diventa una parola buona per tutte le stagioni. C’è tuttavia un riferimento in un’altra definizione, quella del governo inglese[3],
“The concept is not static, there is no absolute definition of a smart city, no end point, but rather a process, or series of steps, by which cities become more ‘liveable’ and resilient and, hence, able to respond quicker to new challenge,
che può essere molto interessante, specie se lo colleghiamo alla riflessione sull’anti-fragilità proposta da Taleb: è l’aggettivo “resiliente” che si accompagna al termine “vivibile”: resiliente è un sistema capace di sopportare distorsioni senza collassare o cambiare di stato. Una città resiliente è dunque[4]:
“one that has developed capacities to help absorb future shocks and stresses to its social, economic, and technical systems and infrastructures so as to still be able to maintain essentially the same functions, structures, systems, and identity”.
Non sarebbe male dire che una “città intelligente” è quella capace di essere resiliente da un lato e giusta dall’altro. La nozione di “antifragilità” aggiunge alla resilienza una caratteristica importante: non solo sopporta il cambiamento, ma se ne avvantaggia:
“Alcune cose traggono beneficio dagli shock, prosperano e crescono quando sono esposte a mutevolezza, casualità, disordine e fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ciò nonostante, a dispetto dell’onnipresenza del fenomeno, non disponiamo di un termine che indichi l’esatto opposto della fragilità. Per questo parleremo di antifragilità. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle organizzazioni, le ricette migliori (come ad esempio il brodo di pollo o la tartara con una goccia di cognac), l’affermazione di città, culture e ordinamenti giuridici, le foreste equatoriali, la resistenza ai batteri e via dicendo, fino a includere l’esistenza stessa della nostra specie su questo pianeta. L’antifragilità stabilisce il confine tra ciò che è vivente e organico (o complesso), come il corpo umano e ciò che è inerte, come ad esempio un oggetto fisico come la spillatrice sulla vostra scrivania. L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene. Permettetemi di essere più drastico: siamo molto più bravi a fare che a pensare, grazie all’antifragilità. Preferirei mille volte essere stupido e antifragile che estremamente intelligente ma fragile.”[5]
Un’indicazione per il pianificatore sarebbe quello dunque di operare per rafforzare la capacità di un sistema-città di essere antifragile.
Una strada che Taleb suggerisce è quella della via negativa (un’espressione che egli usa con un senso assai diverso da quello teologico[6]: nelle parole di Taleb:
The entire idea of via negativa is that omission (…) does not have side effects and branching chains of unintended consequences -hence robust”[7]
Vediamo di spiegarci[8]: piuttosto che indicare cosa attraverso le nostre azioni di pianificazione, vorremmo che succedesse (un’ambizione improbabile oltre che un po’ totalitaria) ci dovremmo chiedere cosa è necessario evitare che succeda, o perché in potenza oggettivamente catastrofico (come gli effetti del costruire senza regole in zona sismica o del costruire tout court in aree di esondazione) o perché indesiderato o iniquo (e questo può essere stabilito come visione collettiva: ad esempio un ulteriore consumo di suolo).
Le norme e i vincoli della pianificazione dovranno essere fermi e cogenti nel rendere minimi gli effetti catastrofici di eventi anche improbabili.
Il resto deve essere affidato a processi e progetti.
Attenzione, non vogliamo dire che debba essere “fuori dal Piano”, vogliamo dire che deve lasciar spazio all’azione dei soggetti, favorendo e sostenendo la forza e le capacità dei soggetti deboli.
Per capirci se l’obiettivo “positivo” fosse quello della ricostruzione di una realtà produttiva agricola vicino, intorno e dentro la città, vincoli che prevedano la non edificabilità in aree agricole abbandonate e norme che consentano interventi di ristrutturazione e di ampliamento solo con una densità molto bassa e con la presenza di attività produttive, non sarebbero sufficienti a garantire questo obiettivo, potrebbero anzi essere eluse o aggirate; servirà avviare dei processi che incentivino la produzione agricola e la riattivazione di attività produttive, con politiche di promozione delle produzioni locali, di sviluppo di infrastrutture moderne, di rafforzamento della produzione agricola con l’uso turistico. O se l’obiettivo fosse evitare la gentrificazione nelle aree recuperate della città storica, norme che prevedano la destinazione una quota di alloggi alle categorie deboli, anche intelligenti e attente, non sarebbero sufficienti in assenza di progetti che garantiscano a queste categorie l’accesso a opportunità di lavoro qualificato, e cioè alla formazione e alla possibilità di consolidare e modernizzare piccole imprese di servizi; e non sarebbero sufficienti se non fossero accompagnate da piani del commercio lungimiranti e da un uso intelligenti degli spazi pubblici per favorire l’insediamento di attività e di persone che accrescano la mixité sociale.
O se si volesse utilizzare in modo intenso ed efficiente l’insieme degli edifici e dei contenitori dismessi spesso presenti in città, non sarebbero sufficienti vincoli alle destinazioni d’uso; servirebbe dare spazio alle energie sociali, all’auto-gestione, al riuso temporaneo, ad attività di “auto-costruzione”.
Non è solo un questione della crisi economica che durerà a lungo e non è solo questione delle scarse risorse a disposizione delle amministrazione locali, ma i progetti di gestione o di trasformazione della città non sono possibili senza lasciare spazio alla creatività e alla autonoma iniziativa dei cittadini: la questione è mettere chi ha meno risorse in condizione di essere protagonista, difendendone i diritti e dando loro spazio e possibilità di protagonismo (che altro è l’empowerment).
Gli elementi fondamentali della nostra idea di via negativa applicata alla Pianificazione territoriale è questa: un sistema che sappia raggiungere obiettivi condivisi senza decidere al posto loro cosa le persone devono volere, ma impedendo che gli interessi più forti da un alto, le spinte e le necessità immediate e contingenti dall’altro determinino un’appropriazione privata della città da parte dei “ricchi”. Un quadro di regole e di norme stabile e di lunga durata, basato sulla precauzione, che renda antifragile l’insieme dei sistemi che costituiscono la città e il suo territorio e che favorisca equità ed eguaglianza (in un paio di parole, il diritto alla città[9]) attraverso l’azione progettuale dei suoi abitanti.
Questo non vuol dire eliminare le occasioni e le possibilità di progetti unitari, coerenti e pensati dall’alto e neppure rinunciare a un rapporto con gli investitori; al contrario il recupero, la riqualificazione, la rigenerazione urbana hanno bisogno di progettualità: le grandi aree dismesse delle città devono essere ripensate e ridisegnate con una visione unitaria che non può essere realizzata dal basso, il rapporto con la campagna e la ricucitura dei frammenti urbani ha bisogno di una regia e di un coordinamento, il risanamento delle periferie può avvenire solo in una dimensione coordinata.
Una pianificazione per rendere anti-fragile la città, dunque; dunque intelligente.
[1] http://smartcitiescouncil.com/smart-cities-information-center/definitions-and-overviews
[2] Caragliu, A; Del Bo, C. & Nijkamp, P (2009). “Smart cities in Europe” in Serie Research Memoranda 0048(VU University Amsterdam, Faculty of Economics, Business Administration and Econometrics).
[3] Dept Business (2013). “Smart cities – background paper”. UK Government Department for Business, Innovation and Skills.
[4] http://www.resilientcity.org/index.cfm?id=11449
[5] http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-11-19/antifragile-evitare-eccessive-precauzioni-121759.shtml?uuid=Ab2rxQ4G
[6] la teologia negativa (o apofatica) sostiene che per arrivare alla scoperta di Dio si deve partire da ciò che di Lui non si può dire (Zaunassi 2005),
[7] https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10150379534483375&id=13012333374
[8] La parte che segue è una rielaborazione da un articolo mio e di Ivan Blecic “Construction of Future Scenarios for Antifragile Planning” in pubblicazione sul volume Adaptation Planning in a Mutable Environment edito da Springer.
[9] Harvey D. (2012) Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, Verso. London – New York ; Lefebvre H. (1967) Le Droit à la ville Ed. du Seuil, Paris
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