Il 7 maggio si è tenuto presso la facoltà di Studi Umanistici di Cagliari il seminario “COSTRUIRE CONSENSO. CINEMA E FOTOGRAFIA PER LA RIFORMA AGRARIA IN SARDEGNA (1950-62)”, dedicato al ruolo svolto dai documentari e dalle fotografie nella narrazione degli eventi che riguardarono le zone della nostra regione interessati agli interventi della riforma. La dott.ssa Francesca Giraldi, storica della fotogfrafia, ha partecipato al seminario con l’intervento “La riforma agraria nelle immagini fotografiche dell’ETFAS: istanze di controllo e pratiche rappresentative”: per approfondire i temi legati alla fotografia le abbiamo rivolto alcune domande.

19___Abitazioni rurali nel Centro di Colonizzazione di Alghero_03

Dott.ssa Giraldi, lei si è occupata di ricostruire l’archivio dell’ETFAS, composto da circa 4.000 immagini realizzate dal fotografo Elio Poddighe; ci può raccontare quali erano, in funzione della costruzione del consenso, i codici rappresentativi di riferimento?

 

All’epoca esisteva un codice rappresentativo che potremmo definire del “prima, durante e dopo” e che Poddighe utilizza soprattutto per documentare lo stato di avanzamento delle opere pubbliche. In una ricerca che ho condotto sull’origine della “foto industriale” (tutti i testi di storia della fotografia fanno nascere il genere in ambito minerario negli anni Settanta dell’Ottocento) nell’archivio di Iglesias ho ritrovato delle stampe all’albumina che riportavano il marchio di Adolphe Godard, fotografo abbastanza noto al tempo perché lavorava in tutto il Regno Sardo Piemontese: nel 1860 venne chiamato ad Iglesias per documentare lo stato di avanzamento dei lavori delle miniere. Nell’archivio sono conservate solo tre stampe anche se le fotografie commissionate erano 48. Questo tipo di fotografia nasce per soddisfare il bisogno degli amministratori delle miniere di avere delle immagini da mostrare durante i consigli di amministrazione con sede fuori dal territorio isolano; l’incarico conferito a Godard nasce in seguito ad un aumento di capitale che interessò la miniera di Monteponi e dalla conseguente necessità di avere conferme del giusto indirizzo degli investimenti. Questa prassi di documentazione dell’avanzamento dei lavori nelle opere si riscontra in Sardegna anche in occasione della realizzazione delle ferrovie, documentate dai fratelli Besso; o ancora durante la costruzione delle colonie penali e della diga sul Lago Omodeo.

In questi esempi comunque la pratica del “prima, durante e dopo” non è riscontrabile: è un canone narrativo introdotto dalla pratica documentaria dell’Istituto Luce. Ad esempio, i cinefilmati proiettati nei cinema prima dei film in programma seguivano proprio questo schema: prima una descrizione della landa desolata, in seguito l’intervento delle macchine e del lavoro dell’uomo e infine la trasformazione con le opere realizzate.
Scorrendo le fotografie disponibili sulla Digital Library si intuiscono i temi seguiti da Poddighe per costruire il racconto delle vicende legate alla riforma agraria: la vita degli assegnatari, le manifestazioni ufficiali, gli interventi sul territorio ecc ecc. In quali tra questi le fotografie presentano l’approccio narrativo più innovativo?

 

Quel che sicuramente Poddighe introduce come elemento personale è la modalità di rappresentazione fotografica del mondo degli assegnatari che, all’interno dell’intero corpus di immagini, regala le immagini più forti e significative. Le fotografie degli assegnatari sono quelle maggiormente innovative e capaci di raccontare “di più”: a parte quelle costruite ad hoc (è il caso della messa in mostra da parte delle mogli degli assegnatari dei premi che l’Ente elargiva alle famiglie), esiste un insieme di fotografie che Poddighe realizza agli assegnatari in maniera molto immediata durante i suoi reportage tra i centri di colonizzazione. In queste immagini emerge tutto il contrasto tra gli ideali di riforma e di innovazione e la situazione di reale povertà in cui queste persone erano rimaste nonostante tutti gli sforzi dell’Ente e delle figure professionali che cercavano di favorire il buon esito della riforma (si pensi agli assistenti sociali che cercavano di modernizzare il ruolo della donna, l’igiene nelle scuole ecc ecc). Un altro corpus di immagini che si distingue per il valore estetico è quello legato alla vita dei figli degli assegnatari, scattate anche nella colonia marina di Maria Pia (Alghero), di proprietà dell’ETFAS (sono immagini realizzate nel 1953 ma ricalcano l’estetica e i canoni di quelle del Ventennio). Queste fotografie venivano rilegate in curati album di pelle per essere regalate alle autorità in occasioni speciali, sempre a dimostrazione del buon andamento della riforma. Ogni foto dell’archivio è stata catalogata compilando in ogni scheda 10-15 campi in cui vengono indicati l’autore, la data e il luogo di scatto, la dotazione tecnica con cui è stata realizzata, l’evento o la circostanza in occasione del quale è stata realizzata e l’elenco di testi in cui l’immagine è stata pubblicata: questo ultimo aspetto è particolarmente importante perché permette di capire qual è l’utilizzo successivo che viene fatto dall’immagine; spesso infatti la stessa fotografia veniva pubblicata più volte o nelle monografie o nella rivista “Sardegna riforma agraria”, a dimostrazione di come la vitalità di certe immagini vari e aumenti nel tempo, proprio in funzione dell’uso che se ne fa.

 

 

”Quale valore avrà la fotografia del nostro tempo per gli storici del futuro?”: a questa domanda Roy E. Stryker, coordinatore della Farm Security Administration e fervente sostenitore della tesi secondo la quale “le immagini, oltre al loro valore immediato, hanno una vitalità che aumenta con il tempo”, nel 1947 risponde con una sorprendente inversione di rotta affermando che questo valore “è solo presunto” e che il contributo che la fotografia può dare alla conoscenza della storia “è sempre e soltanto probabile”. Vestendo i panni della “storica del futuro”, come valuta le due affermazioni di Stryker?

 

Entrambe le affermazioni hanno in qualche modo valore. “La vitalità aumenta col tempo”: questo è vero se consideriamo che l’immagine fotografica è sempre composta da chi la realizza e da chi la osserva; la fotografia si costruisce a partire da chi la scatta ma soprattutto viene poi interpretata dagli sguardi di chi la osserva. A seconda dell’osservatore, a seconda dell’epoca storica, a seconda del contesto e a seconda della formazione personale la lettura è sempre polisemica. Cito a questo proposito “Another way of telling”, lo studio dei sociologi John Berger e John Mohr proprio nel campo della sociologia visuale: mostrarono cinque loro fotografie a dieci persone differenti ottenendo delle letture totalmente eterogenee, a dimostrare che l’immagine vive e si costruisce anche nello sguardo di chi la osserva. Per quanto riguarda poi il contributo che la fotografia può dare alla conoscenza della storia, la mia opinione è che sia poco probabile proprio perché, come abbiamo visto, la fotografia non è oggettiva. Col tempo ho maturato una posizione esposta in un saggio in cui cerco di leggere la fotografia e la storia della fotografia non secondo i canoni artistici, estetici e sociologici ma attraverso l’approccio che Michel Foucault ha dato alla storia della cultura; ritengo che per capire la fotografia e comprenderne la pretesa di oggettività la si possa accostare alla medicina: più che inserirla all’interno della storia dell’arte sarebbe da ricollegare alla medicina, dalle pratiche della maschera mortuaria e della ceroplastica anatomica – dispositivi utilizzati per riprodurre la realtà – sino alla diagnostica per immagini. Un altro aspetto sempre di matrice foucaultina è legato alla concezione della fotografia come strumento narrativo, più che strumento conoscitivo. Uno strumento narrativo ormai entrato nella pratica quotidiana di ogni persona: noi oggi comunichiamo con la fotografia senza nemmeno più il bisogno di mandarsi un messaggio – basti pensare ai social network – anche se queste sono narrazioni che avvengono con regole anonime, regole imposte dall’alto e poi eseguite. Questo perché la fotografia oggi è in crisi come “fotografia artistica”: l’autore non ha più neanche senso, oggi sono “tutti fotografi”, tutti possono scattare e quei criteri necessari a distinguere le fotografie tra loro sono sempre più labili; in più, la crisi del mestiere del fotografo è legata anche alla difficoltà di saper narrare temi o storie che si distinguano dalla “narrazione collettiva” e si allontaninino dall’autoreferenzialità. Per tutti questi motivi trovo la fotografia adatta più ad aiutarci a narrare che non a conoscere. Ritornanto al punto della domanda e per concludere, la mia posizione rispetto alle affermazioni di Stryker è baricentrica, possiamo considerarle vere tutte e due.

 

Articolo di: Stefano Ferrando

 


Francesca Giraldi ha studiato filosofia e insegna negli istituti superiori.
Lavori:

  • Riordino catalogazione e digitalizzazione dell’Archivio fotografico della riforma agraria dell’ ETFAS (incarico Ersat)
  • Realizzazione della fototeca della XXV Comunità Montana Sa Jara
  • Collaborazione con la rivista “Archivio fotografico toscano” di Prato
  • Laboratorio di fotografia (Università degli studi di Cagliari / Storia del cinema)

Mostre:

  • 2009: “Light room/Cruz crucis” presso 2+1, Cagliari
  • 2011: “TVB”, T-Hotel, Cagliari

 

 

 

Fotografie tratte da www.sardegnadigitallibrary.it -©Agenzia Laore, ©Regione Autonoma della Sardegna