Intervista a FARE, studio di architettura nato nel 2006 su iniziativa di Riccardo Vannucci e Giuseppina Forte
1) L’inizio secolo passerá alla storia come quello del web 2.0, delle manifestazioni organizzate attraverso la rete, di eventi che coinvolgono attivamente le persone, sempre meno disposte ad accettare passivamente decisioni calate dall’alto. Lo sviluppo delle cittá e le modifiche del paesaggio risultano coinvolte nello stesso scenario, in cui il desiderio dell’utenza finale assume crescente importanza. In che modo la figura dell’architetto dovrebbe porsi rispetto a questa prospettive?
Non sono convinto che il desiderio dell’utenza finale assuma crescente importanza nelle trasformazioni che riguardano la città e il paesaggio; ho piuttosto la sensazione che un ruolo crescente sia riservato al contrasto tra quelli che dovrebbero essere gli interessi sociali e quelli che sono interessi ‘privati’.
Ovviamente il tutto assume caratteristiche diverse a seconda della situazione cui ci si riferisce: Berlino non è Roma, come Amsterdam non è Cagliari.
Questo non modifica, anzi, il modo in cui l’architetto dovrebbe porsi rispetto ai cambiamenti in atto: in linea di principio non certo come mero esecutore o osservatore quanto, piuttosto, quale soggetto attivo, per quanto possibile indipendente, delle scelte di governo.
Il ‘dovrebbe’ è d’obbligo, e oggi potrebbe apparire, almeno nella maggioranza delle circostanze, come velleitario ma costituisce uno scenario di riferimento cui tendere.
2) Turismo, capacità di carico, speculazione, fragilità ambientale, climate change… Sono tanti i fattori che incidono sugli equilibri dei territori costieri. Quali strategie i progettisti possono proporre in un ambiente così delicato e complesso?
Le strategie dovrebbero scaturire dalle considerazioni esposte al punto precedente: in che misura riusciamo ad essere interpreti di una nostra volontà e coscienza piuttosto che esecutori di scelte altrui?
La strategia ‘operativa’ se mi si passa il termine, non può che essere ispirata a criteri di reversibilità, impatto controllato, tutela che, tuttavia, non possono e non devono farsi veto incondizionato. L’azione, la scelta sono essenziali quanto l’astensione e il silenzio, l’importante è che non vengano tradotti nella presunzione di poter intervenire incondizionatamente: le condizioni esistono, e sono fissate sia socialmente sia disciplinarmente.
3) La Sardegna ha recentemente proposto strategie che hanno posto il paesaggio al centro dell’azione di pianificazione. Qual è il suo parere a riguardo?
Quali pensa siano gli strumenti per affrontare la problematiche e le criticità del governo del territorio ?
Il governo del territorio, come il governo di tutta la sfera pubblica, deve collocarsi tra consenso e trasformazione critica, in un equilibrio che non è definibile a priori e che, per sua natura, è dato come instabile.
Nel momento in cui il consenso diventa il fattore determinante delle scelte [la ricerca/mantenimento del consenso] l’equilibrio si spezza fatalmente come, proprio in Sardegna mi sembra sia accaduto di recente.
Nella fattispecie il paesaggio quale bene e risorsa ‘limitati’ costituisce un ambito di esercizio dell’esercizio di governo particolarmente appetito [e strategico]: anche in questo la strumentazione è probabilmente già disponibile, ancorché migliorabile, quel che sembra latitare è la volontà di utilizzarla correttamente.
4) Affermiamo che l’architettura ha un valore POLITICO e crediamo che debba riscoprirne la sua dimensione ETICA” quale pensa debba essere il ruolo della politica nei confronti dell’architettura oggi.
L’architettura è per sua natura politica. Sia in relazione ai comparti economici con cui si trova fatalmente ad interagire [o cui è sottoposta] dall’industria delle costruzioni al mercato immobiliare sia per la sua funzione di rappresentazione dei rapporti di forze tra le varie categorie [classi?] di cui la società si compone.
Ciò premesso, il ruolo della politica nei confronti dell’architettura è oggi fondamentalmente orientato alla costruzione di consenso [con alcune eccezioni, forse], più o meno a tutte le latitudini.
Le operazioni architettoniche sono spesso concentrate su interventi che garantiscano un rapido e sicuro ‘ritorno’, e se questo criterio governa gli aspetti economici perché non dovrebbe applicarsi alla merce ‘consenso’?
Che poi, incidentalmente, si mettano in campo anche interessi altri, meno astratti, è un bonus ulteriore [vedi i casi di vera e propria corruzione,m ma in questo caso siamo nella criminalità comune].
5) Nel suo modo di intendere l’architettura in quale dei concetti espressi dal nostro manifesto si sente più rappresentato? Perchè?
In termini generali mi sembra che i contenuti del manifesto siano tutti condivisibili, e lo stesso può dirsi, nella sostanza, anche per il loro peso specifico. Condivisibili nel senso che rappresentano efficacemente quella sistema di valori/concetti/idee che oggi costituiscono l’orizzonte culturale cui riferire il proprio operato. Chi potrebbe obiettare, ad esempio, sulla centralità della sostenibilità o dell’etica [almeno a parole]? A dover indicare tuttavia un personale aspetto del manifesto in cui personalmente mi riconosco, e si riconosce l’operato di FAREstudio, penso che l’affermazione che l’architettura abbia un valore politico e che, in quanto tale, si debba riscoprirne [della politica?] la dimensione etica sia quella centrale, insieme, evidentemente, alla constatazione secondo cui l’architettura debba agire quale strumento di riduzione degli squilibri sociali e di miglioramento della qualità della vita.
Al punto che proprio da tali assunti, forse, partirei, trasportandoli all’inizio del tutto, ma questa è una questione marginale.
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